L’inno A Lussino, eseguito dal coro di voci femminili “Vittorio Craglietto”, ha aperto sabato 14 giugno 2014 a Lussinpiccolo, nell’affollatissimo anfiteatro della Biblioteca Civica, la presentazione del Piccolo vocabolario imperfetto della parlata dei Lussini, edito dalla locale Comunità Italiana con il contributo del Ministero degli Affari Esteri di Roma.
Sempre piena de sol, de splendori / xe Lussin che se specia nel mar / xe un’ebrezza l’odor dei so fiori / El so limpido ciel fa incantar // Come un lago el so porto xe quieto, / qua le barche in riposo le sta. / O paese dal sol bendeto, / ti la gioia nell’aria ti ga // Le to picie casete i to orti / mete un senso de pase nel cor. / El to clima resuscita i morti / le to done risvela l’amor.
Dopo il saluto del sindaco, Gari Cappelli, è intervenuta la presidente della Comunità e ideatrice nonché consulente dell’opera, Anna Maria Chalvien Saganić: “Il libro vuol ricordare i detti e le usanze dei vecchi abitanti dell’isola in modo da conservare la loro cultura e tramandarla a figli e nipoti. È grazie a chi è rimasto se questa parlata oggi può mantenersi viva”.
Realizzando la ricerca – ha ricordato Mirella Sartori, di radici lussignane, ma residente a Roma – “ho assecondato la nostalgia di qualche cosa che ho fatto appena in tempo a conoscere dai sussurri fra mia nonna e mia madre, ascoltando gli echi dei loro ricordi”. Durante alcuni mesi di permanenza nell’isola Sartori ha raccolto, attraverso interviste dal vivo e consultazio i. Poi, con la preziosa consulenza di Adriana Sferragatta, è iniziata l’interpretazione dei misteriosi significati di quei suoni familiari”.
Quasi cinque mila i lemmi pubblicati, ma il lavoro continuerà con la ricerca di altri vocaboli da inserire in successive edizioni. Completano il libro un decalogo di massime lussignane di vita quotidana, la poesia di Arturo Benvenuti Terra di Cherso e Lussino, un ampio elenco di soprannomi usati nell’isola, le denominazioni dialettali di località e paesi, modi di dire e proverbi. In chiusura Arlen Adren, laureata in italiano e francese all’Università di Zagabria, ha fornito elementi di grammatica della parlata italiana nell’isola.
Le parole ritrovate nel Vocabolario sono la carne e il sangue della nostra anima. Nel primo racconto della Genesi biblica – ho ricordato in pref azione – Dio creò il cosmo attraverso la parola: “E Dio disse: Sia la luce e la luce fu”. La parola “non è soltanto segno, comunicazione, significato ed espressione”, secondo il massimo studioso della Qabbalah ebraica del nostro tempo. Il suono che è la base di ogni lingua, la voce che le dà forma, che la forgia elaborandone il materiale sonoro sono già il primo volto del reale. “La parola – ha scritto dall’Università Roberto Vecchioni – è il primo mito, è il più grande sforzo imitativo della potenza e spiritualità divina”.
L’incontro, nella luce di un caldo tramonto, si è concluso con l’esecuzione di canzoni dell’ultimo cinquantennio da parte del triestino Alex Vincenti. Il concerto è stato organizzato Popolare di Trieste.
Parole, dunque, che suggeriscono l’atmosfera, il profumo dei luoghi, parole suscitatrici di quei richiami, di quelle corrispondenze del cuore, simili ai ricordi visuali fatti affiorare dalla famosa madeleine di Proust inzuppata nella tazza di tè. Esse non soltanto ricreano estasi conoscitive di cose e di situazioni sepolte nella coscienza, ma provocano una strana felicità fissata in una sorta di negativo fotografico incancellabile che ha resistito all’opera di distruzione compiuta dal tempo. Il dialetto come voce affettiva, lingua di un mondo privato, confidenziale che fa riemergere, similmente alle Ninfee di Monet nel laghetto di Giverny, familiari memorie.
Sfogliando il Vocabolario mi è parso di sentir risuonare la voce della nonna mentre stendeva col mattarello sul tavolo di marmo l’impasto di uovo e farina per i macaroni conditi col sugo de galina, d’obbligo nel pranzo della festa dei Santi; o mentre si affaccendava la vigilia di Natale a sbattere nel mortaio di pietra il bacalà in bianco mantecà nel latte e nell’oio de oliva, ad arrostire sulla griglia i zievoli da servire co insalata de primo taio, a cuocere sullo spaher le frìtole e a friggere i crostoli, e preparava il pandefigo, succulento cono, dal gusto dolce e speziato, di fighi suti masinadi mescolati a due o tre bicerini de aquavita, Ma il capolavoro, a Natale, era la verza napofrik, un piatto misterioso nel quale risuonava l’eco di medioevali alchimie, di un verde forte, denso, variegato da trasparenze nero-rosate, ricordato anche in un racconto dello scrittore lussignano Giani Stuparich. Xe radii a farla, esclamava la nonna, e radii significa difficoltà, problemi da risolvere. E si lamentava perché la padrona della casa visavì ammucchiava nell’orto sporchezzi, e avvolta dall’odore acre di fumo e di pino bruciato sul fogolèr sormontato dalla grande cappa cupa come il cappello d’una strega lucidava i secchi di rame, allineati sopra la scafa de petòn, accanto alla stalasa.
Nomi, parole, suoni irradianti immagini, nomi che sanno di salsedine e di rosmarino, di sole e di vento, di tenerezza e di malinconia, leggeri come fiori d’oleandro, intessuti di volti, scrigni di amori e dolori, di baci e di pianti, tracce di abbandoni e ritorni, nomi sgranati di stelle, nomi, parole sonanti di echi portati dallle cristalline trasparenze del mare.
Io e Annamaria eravamo partiti da Udine venerdì 13 mattina con l’auto guidata dall’amico pittore Claudio Bonanni, di cui rallegra l’accento romanesco, grasso e gioioso alla Alberto Sordi. Entusiasta dell’isola ha continuato per tre giorni a scattare foto dalle quali trarre una serie di quadri.
Durante la navigazione in traghetto da Brestova a Faresina le onde del Quarnero, di un blu profondo, ci venivano incontro con fluttuanti carezze di benvenuto. Si avvicinava come un gigante villoso l’isola di Cherso.
Ebbrezza di tornare, a distanza di sette anni, nella mia terra natale. Ci incuneavamo in una possente sinfonia di verdi, tra spalliere di querce, ginepri, lecci, càrpini, pini marittimi e d’Aleppo attorti nel vento, alaterni, lentischi, olmi, aceri, frassini, allori, sambuchi, ligustri, citisi. Poi i pianori riarsi di salvie, il tumultuare di rocce di taglio aguzzo, le distese d’infiorescenze solari del magris, come viene chiamato in dialetto l’eliocriso, le spalliere dei mirti. Recupero magico di qualcosa che giaceva dimenticato nel fondo dell’animo, come l’immersione nell’incantesimo di un’Itaca ritrovata. Risuonano i versi di Konstantin Kavafis: “Itaca tieni sempre nella mente / la tua sorte ti segna quell’approdo… Itaca non t’ha illuso. / Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca”.
Commentavano queste sensazioni, nel percorrere la strada che s’inerpica fra le masière pastorali, cumuli di pietre sulla terra rossa sotto gli olivi protesi nell’azzurro, quasi presagio dell’Ellade lontana. I nomi dei luoghi facevano emergere, nella loro solare terrestrità, favole udite da bambino. Il mareggiare delle ginestre fiorite, simili a greggi di pecore dal vello d’oro, quasi un segno degli Argonauti approdati a questi lidi nel tempo delle leggende, quando Medea uccise il fratello Absirto e dalle sue membra dilaniate germinarono le isole.
Ogni traccia umana – una casa dispersa, un paese arroccato nella luce cui conducono sentieri polverosi di terra battuta, una cappella votiva nel pianoro calcareo – sembra messa là per scendere nell’animo e quietarlo con una lunga carezza.
Si stendono le collane d’isolotti brulli che inanellano il mare, il corpo allungato dell’isola di Veglia, la catena azzurra dei Velebit sullo sfondo, il cielo di vetro. Omerica pulcritudine.
Sosta per un pranzo di pesce a Ossero, l’antica capitale bizantina e veneta delle isole di Cherso e Lussino, con le casette calcinate rese abbaglianti dal sole e cinte da orti traboccanti di palme e di grandi macchie policrome di oleandri, la danza delle sculture di Mestrovic, maestro croato del Novecento, l’armonioso Duomo del Quattrocento veneziano. Punto d’arrivo la magica baia di Cigale con l’incanto dei suoi giganteschi pini che riflettono nell’acqua trasparente come una bacheca lo smeraldo lucente degli intrichi di rami. Sogno beato dell’Eden.
Licio Damiani