Claudio Mario Feruglio è nato a Udine nel 1953. Maestro d’arte, ha conseguito gli studi all’accademia di Belle arti di Venezia. Da oltre quarant’anni è presente sulla scena della ricerca artistica, di cui compiutamente dice il catalogo sottotitolato “In ascolto”, a cura del sociologo Raimondo Strassoldo. Ultimamente gli è stata rivolta anche l’attenzione critica nell’ambito degli studi universitari; si ricorda ad esempio la recente e significativa mostra antologica (luglio-agosto 2015) presso la Sala Rosa dell’Università di Siena e a cura dell’ateneo omonimo. Si ricorda inoltre come la sua pittura sia tutt’ora allo studio nelle ricerche di estetica religiosa e letteratura comparata (in particolare con riferimento alle sottili corrispondenze di sensibilità e linguaggio con il poeta metafisico Nicola Šop), condotte da Fedora Ferluga Petronio (Università di Udine). Ma questi esiti illustri sono il frutto di un lungo e continuo lavoro, che, in tanti anni, ha mirato ad esplicitare un’ispirazione di fondo o vocazione che via via ha trovato l’accesso alla superficie, dichiarandosi apertis verbis. Infatti affascina del suo profilo artistico come per vie diverse, ma sempre intonate tra loro, si sia andato progressivamente evidenziando con quella netta cifra che oggi conosciamo, riconoscibile ed inequivocabile. Il pittore del distacco e del silenzio. La sua strada comincia, mentre ancora frequenta l’ “Accademia” di Venezia e le lezioni di Edmondo Bacci, con la prima personale al Battistero del Duomo di san Giovanni a Grado (GO). La mostra è a tema religioso-biblico, ma in quel 1977 lo stile omaggia l’espressionismo, con un approccio alla teologia della sofferenza, della kenosis del Verbo. Si veda a segno del primo periodo L’ultima cena, 1973, Studio per minatori, 1974 (che rimanda al primo Van Gogh, a Mangiatori di patate per esempio). Segue nel decennio successivo, nel dopo-terremoto, un bisogno di astrazione nell’artista, di una epoché fenomenologica quasi, per vedersi dentro più a fondo, per meglio intuire il movente essenziale, l’eidos del suo dedicarsi al mestiere e al rito del dipingere. Questo azzeramento produce il suo periodo “astratto” che ricorda Klee (vedi ad esempio, Disgelo, 1988; o Verso l’imbrunire, 1988) e l’arte cubista (vedi ad esempio Scomposizioni di figure in movimento, 1982), ma anche l’arte informale (Anche oggi mi sono innamorato della vita, 1988). Periodo questo che, dato il gusto contemporaneo per il superamento della figura tradizionale, riesce bene a compiacere il gusto e l’attesa di critici, galleristi, collezionisti: in linea con tale plauso viene attribuito al pittore udinese l’ambito premio nazionale “San Fedele” di Milano. Ma è con gli anni ’90 che la tematica religiosa ha il colpo d’ala sul piano espressivo artistico. È adesso che la vocazione prende lo slancio, in un rinnovato incontro, dopo l’ “astrazione”, con gli elementi del paesaggio, con i colori: ecco le albe, e i tramonti, gli arcobaleni neri, le vie, gli orizzonti, le isole. Ma di un paesaggio sempre visto o letto “da dentro” si tratta, come bene sottolinea il curatore del catologo citato, In ascolto. Non realismo, dunque è quello che incominciamo a vedere nei dipinti; ma una “trascendenza” piuttosto viene in essi aperta, e proprio nel o dal cuore dei paesaggi.
Sono anzitutto i territori montani dell’alto Friuli ad ispirare quel viandante del colore, che intanto, in questa fase del suo lavoro, è diventato Feruglio. Ecco montagne e vallate che proprio col loro aspetto scarno meglio sanno darsi all’ascolto interiore del pittore. La matrice cristiana, la spiritualità creaturale guidano la ricerca dei temi, e sostengono il dialogo crescente con le occasioni date allo sguardo, che a tempo debito si traduce in dipinto. Non che i temi siano solo quelli suggeriti dalle luci e dai rilievi del Canal del Ferro e di quei dintorni, ma tra Moggio Udinese, dove l’artista è solito soggiornare per lunghi periodi estivi, e lo studio di pittura nella casa di città a Udine, si viene a creare un battito cardiaco, un tempo ritmico, un accordo misterioso e prodigioso. Non a caso l’amico gesuita padre Mosè Fumagalli ebbe a parlare, nel caso di Feruglio, di Moggio come “luogo teologico”. Certo l’atmosfera moggese meglio di ogni altrove ha saputo farsi motore di flussi e stati di coscienza che l’artista registra nei suoi colori “ipogei” e nei suoi orizzonti scarni e primordiali, dove vera protagonista è la forza della luce, emblema di intelligenza ordinante, e creante al tempo stesso, nel mentre pare aver la meglio con la tenebra e i diversi velami che la segnalano. Da ultimo, e come ho avuto modo di dire in altra sede, quella di Feruglio è un’arte che appartiene, sia pure con la piena padronanza del linguaggio della modernità, all’arte sacra e cristiana, nel senso in cui ne ha scritto Titus Burckhart. Similmente a Dostoevskij che ha scritto «la bellezza salverà il mondo», attribuendo all’arte una funzione spirituale, Feruglio si cimenta in un un’opera di restauro del mondo, illuminato dal sogno di un’antica e originaria bellezza. Apocalittica e arcaica, la pittura che Feruglio ci propone ha qualcosa di estremo, perché estremamente esigente, e infatti parla alla totalità dell’uomo e ne esalta, in un apice espressivo, lo stato di peregrinus, orientato da un orizzonte, e sempre però interrogante sul dove, sul quando, sul come di questo andare, fino alla fine delle forze, del colore. Ne viene una pittura del “distacco” e un’estetica del silenzio; tutta una pratica dell’apertura e dell’ascolto affinché il linguaggio torni – in tempi di crisi antropologica – a raggiungerci, nelle sue matrici generative di vita e di senso.
MARCO MARANGONI