Parecchi anni fa un anziano ragognese, già stimato maestro di scuola, accennando alle passioni sportive della sua gioventù ed ai ricordi di un’epoca ormai lontana ma alla quale ripensava con un certo orgoglio, mi fece con sincera ammirazione il nome di Annibale Frossi. Ricordava nitidamente le gesta e la fama del “campione con gli occhiali”, nella maglia nerazzurra dell’Ambrosiana-Inter ed in quella azzurra della nazionale italiana, vincitrice dell’oro olimpico a Berlino nel 1936. Da giovanissimo appassionato di calcio ed “interista”, anche a me quel nome non era sconosciuto. Qualche tempo prima, alcune vecchie fotografie “in bianco e nero” riprodotte sulla rivista ufficiale del celebre club milanese mi avevano fatto scoprire un volto reso inconfondibile da un paio di occhiali a lenti tonde ed infrangibili, legati alla nuca da un elastico.
Il primo giocatore della Serie A con gli occhiali! E che giocatore!Nato il 6 Luglio del 1911 a Muzzana del Turgnano dalla madre Rosina Còncina di Flambro (che per Annibale sarà sempre “il più bel posto del mondo”) e dal padre Cesare Giuseppe Frossi, nobile e medico cividalese, pur affetto da una precoce miopia fin dall’età degli studi udinesi al collegio “Bertoni” ed al liceo “Stellini” il giovane dimostra una grande passione per il football, iniziando a rincorrere una palla di gomma nel cortile della “Parrocchia del Redentore”.
Nel 1928, dall’“Edera” di Chiavris all’Udinese il passo è breve ma già enorme. Frossi si fa immediatamente notare non solo per i suoi capelli rossicci ma soprattutto per le sue doti tecniche e la fantastica velocità (100 metri in 11 secondi e 4 decimi, palla al piede!), contribuendo alla promozione dei bianconeri in serie B (1930) ed alla loro “salvezza” nella stagione successiva. Nell’estate del ’31 il trasferimento al Padova, con altri due ottimi campionati impreziositi dall’esordio in Serie A. Dopo ancora un biennio nella serie “cadetta” (al Bari e di nuovo al Padova), Annibale si avvicina alla svolta della sua carriera. Il 12 settembre 1935, in qualità di caporal maggiore della Brigata di fanteria “Gran Sasso” è a bordo della “Saturnia”, pronta a salpare da Napoli alla volta dell’Etiopia, ma il gerarca Adelchi Serena, appassionato di calcio ed ex presidente de “L’Aquila”, lo fa sbarcare affinché possa giocare nell’ambiziosa squadra abruzzese. È il segno del destino: l’anno dopo, a 25 anni, ecco l’approdo nella grande Ambrosiana-Inter del presidente Fernando Pozzani, che lo acquista per 50.000 lire. Il sogno diventa realtà. A Milano, in campo nella gloriosa “Arena”, assieme all’inarrivabile “Peppino” Meazza, il “Balilla d’Italia” idolo delle folle e di tutti i “baüscia” nerazzurri.
È l’estate del 1936, a pochi giorni dall’inizio delle Olimpiadi di Berlino, destinate ad entrare per sempre nella storia. Sono i Giochi della leggenda statunitense Jesse Owens, la “freccia d’ebano” dell’Alabama, capace di conquistare ben 4 ori ed umiliare le criminali teorie razziste del nazismo hitleriano. Per gli italiani sono le Olimpiadi della grande Ondina Valla, dei campioni della scherma e degli azzurri di Vittorio Pozzo. Il “commissario unico” della nazionale di calcio, già artefice del titolo mondiale del ’34 (e lo sarà anche di quello del ’38) ha selezionato per il torneo olimpico una comitiva di calciatori “studenti” che la stessa stampa italiana definisce simpaticamente “goliardi”, ovvero “ragazzi allegri, saldamente costruiti, freschi di energie, splendenti di salute e di baldanza giovanile”, reduci da un paio di settimane “di ritiro” nel verde di Merano. Tra loro ci sono anche il grande udinese Alfredo Foni (già “colonna” della Juventus) ed il suo coetaneo Frossi, fulminea ala destra dal tiro saettante che Pozzo ha notato da tempo, definendolo “sotto porta” “un’opportunista della più bell’acqua”. I pronostici della vigilia non vedono certo gli azzurri tra i favoriti, presentati piuttosto come “novellini” della squadra “Cenerentola del torneo”. In effetti, il loro esordio è molto sofferto. Il 3 agosto, sotto la pioggia del “Post Stadion”, in presenza di Umberto di Savoia, Bruno e Vittorio Mussolini, i ragazzi azzurri, ridotti in dieci uomini per l’espulsione del terzino Rava, “con fermezza e scaltrezza da veterani” piegano gli Stati Uniti grazie alla rete firmata ad inizio ripresa dal nostro Annibale, già protagonista di un paio d’occasioni fallite solo per “precipitazione”. Il giorno 7 è tempo di quarti di finale, al “Momses Stadion”. Con una prova superba, in una “giornata da segnare nel libro d’oro del calcio italiano”, gli azzurri (nell’occasione in maglia nera) schiantano i pur “inesauribili ed indiavolati” giapponesi per 8 a 0, con “tripletta” del “fulmine” Frossi! Gli effetti della “strigliata” di Pozzo, dopo il modesto debutto, si sono fatti davvero sentire.
Il 10 agosto scocca l’ora della semifinale, nel monumentale “Olympiastadion”, contro la fortissima Norvegia, capace di eliminare la fin troppo “militarizzata” Germania. È un match durissimo ed incerto di fronte “ai biondi giovanottoni del Nord”, che si protrae ai tempi supplementari dopo l’1 a 1 dei primi 90 minuti. A deciderlo è ancora una rete di Frossi, che al 96esimo sospinge in rete la sfera colpita di testa da Bertoni in un groviglio di uomini. “Un vantaggio difeso con i denti” fino al fischio di chiusura, prima del rientro in autobus al villaggio olimpico assieme ai leali avversari (come sono cambiati i tempi…).
Arriva il giorno della finale. Sabato 15 agosto 1936, ore 15. Novantamila spettatori assistono al confronto tra l’Italia e l’Austria, sostenuta dal pubblico tedesco. Pozzo schiera: Venturini, Foni (capitano), Rava, Baldo, Piccini, Locatelli, Frossi, Marchini, Bertoni, Biagi, Gabriotti. “Il campione con gli occhiali” (e con una vistosa fasciatura in testa, frutto di un calcione rimediato da un norvegese) è ancora il protagonista assoluto ed è sua la “doppietta” del trionfo ai supplementari (2-1). Per Frossi è l’apoteosi: 7 reti in 4 incontri, il “capo-cannoniere” del torneo. Sul pennone più alto dello stadio sventola il tricolore ed in un solenne silenzio risuonano le note dell’inno italiano. “Sull’attenti”, Pozzo ed i suoi ragazzi non riescono a trattenere le lacrime della gioia e della commozione. La stampa nazionale celebra giustamente l’impresa degli azzurri (ad oggi mai più ripetuta alle Olimpiadi) e l’eroe di Berlino si merita anche una caricatura di Piero Cattaneo7.
Il trionfo olimpico non schiude ad Annibale le porte della Nazionale maggiore (se non per una sola presenza, contro l’Ungheria, con tanto di gol, prima che Pozzo gli preferisca il campione triestino Piero Pasinati) ma è il preludio alla sua grande avventura in nerazzurro, dal ’36 al ’42. Ancora splendidi successi (gli scudetti del ’38 e del ’40, la Coppa Italia del ’39, ottenuti con sue reti decisive) ed i passi più importanti della sua vita privata: il matrimonio con Maria Teresa Galli, la nascita dei figli Vittorio e Giuliana, il conseguimento della laurea in giurisprudenza. Con la maglia dell’Ambrosiana-Inter, Annibale realizza 49 reti in 147 partite, prima di trasferirsi tra i “tigrotti bustesi” dell’allora gloriosa Pro Patria e chiudere la propria straordinaria carriera con alcune apparizioni in maglia del Como, nel 1945.
Appese le scarpe al fatidico “chiodo”, è l’insistenza del direttore dell’Alfa Magnaghi in cui Annibale lavora a spingerlo sulla “panchina” di allenatore del Luino. È l’inizio di una lunga esperienza da tecnico: Mortara, Monza, Torino (in cui allena un certo Enzo Bearzot…), l’Inter di Angelo Moratti, Genoa, Napoli, Modena ed infine la Triestina (1965). Dopo esser stato un “mister” innovatore, finanche precursore del modulo a “M” poi esaltato dalla formidabile “Grande Ungheria” di Puskas, il “Dottor Sottile” diventa uno dei padri del “difensivismo” all’italiana, assieme a “Gipo” Viani ed al grande “Paròn” Nereo Rocco. Lo 0-0 – sosteneva – è il risultato perfetto, perché espressione dell’equilibrio totale tra l’attacco e la difesa delle squadre in campo”.
Conclusa la lunga stagione di allenatore, a partire dagli anni Settanta è infine apprezzato opinionista calcistico sui maggiori quotidiani nazionali ed in particolare sul “Corriere della Sera”. A 87 anni, Annibale Frossi si spegne a Milano il 26 Febbraio 1999, a causa di una polmonite. È l’ultima “corsa” di un grande campione ed autentico galantuomo a cui sono intitolati una via di Udine a pochi passi dallo stadio “Friuli” ed il campo comunale della sua amata Flambro.
Jurij Cozianin