Nell’anno in corso l’attenzione degli storici, degli organizzatori di eventi e, in genere, di chi intende mantenere viva la memoria storica si sta focalizzando di preferenza, per ovvi motivi, sulla Prima guerra mondiale. Tuttavia, un evento di tale portata non deve oscurarne altri (certo assai meno rilevanti nel lungo periodo, ma non per questo scarsamente significativi e interessanti). Occorre ricordare, ad esempio, il 150º dei Moti friulani messi a punto dal Partito d’Azione nel 1863 e realizzati nel 1864, tre anni dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Il 2014 segna nel contempo il 210º della nascita e il 140º della morte del loro principale animatore: il dottor Antonio Andreuzzi, capo del Comitato d’Azione in Friuli, nativo di Navarons (presso Meduno, provincia di Pordenone), affiliato alla Giovine Italia e figura di spicco della massoneria risorgimentale, fraternamente vicino a patrioti eminenti fra cui, innanzitutto, Mazzini (dal quale assimilò l’idea che a raggiungere l’unità nazionale non dovevano essere né eserciti stranieri né giochi diplomatici, ma gli Italiani: si tratta di un concetto centrale per comprendere e inquadrare correttamente i Moti del 1864) e Garibaldi (che Andreuzzi addirittura visitò all’isola di Caprera nel dicembre 1864), i quali ne esaltarono sovente le virtù; ma si possono altresì ricordare Silvio Pellico, Piero Maroncelli, Ciro Menotti, Pier Fortunato Calvi, Benedetto Cairoli con tutta la sua famiglia e numerosi altri, italiani e no. Nato nel 1804, nel mezzo dell’epopea napoleonica, l’Andreuzzi morì nel 1874, allorché il processo d’unità nazionale si era compiuto: visse, dunque, tutte le fasi del Risorgimento nazionale. Trascinatore convincente e sempre deciso, negli ambienti democratici friulani egli veniva affettuosamente chiamato “il secondo vecchio” per rispetto al “vecchio” per eccellenza: Garibaldi. La camicia rossa Marziano Ciotti di Gradisca – ricordato dall’Eroe dei due mondi, nelle sue memorie, come uno tra i volontari più valorosi – affermò: “L’Andreuzzi puossi, senza tema di smentita, presentare ai posteri come una delle più nobili figure che sieno comparse in tutti i movimenti rivoluzionari dell’epoca”. Aurelio Saffi, dal canto suo, nel Proemio agli scritti di Mazzini definì il medico di Navarons “vecchio d’anni ma giovane di cuore”, mentre lo stesso Mazzini, scrivendo ad Agostino Bertani nel marzo 1864, lo dipinse come “il più rivoluzionario degli uomini”. Non è per caso, dunque, se le carte di polizia austriache lo descrivevano quale “uomo esaltatissimo e fanatico… aperto e fanatico fautore delle libertà e indipendenza italiana”.
Degli altri primi attori del 1864 friulano facciamo inoltre menzione, per tutti, senza voler fare torto a nessuno, Silvio Andreuzzi (figlio di Antonio; peraltro, l’intera famiglia fu pienamente coinvolta nell’attività patriottica), Titta Cella, il sopraccitato Marziano Ciotti, Giacomo Giordani, Lodovico e Giovanni Michielini, Osvaldo Michielutti, Pietro Passudetti, Giovanni Battista Pontotti, Francesco Rizzani, Francesco Tolazzi, Domenico Zatti…
Antonio Andreuzzi, primogenito di sei fratelli, nacque il 4 dicembre 1804 da Giuseppe, ardente repubblicano che nel 1796 si era arruolato nella legione italiana della Lombardia per mettersi agli ordini di Napoleone (salvo a indignarsi e tornare a Navarons dopo la pace di Campoformido, che aveva consegnato il Veneto all’Austria), e da Caterina Passudetti. Nel 1835 sposò una cugina che portava lo stesso nome della madre e che lo spalleggiò sempre in ogni impresa per la Patria, subendo anche per sei mesi, nel 1864, assieme alle figlie (e a numerosi altri sospettati di aver partecipato in varie forme ai moti), la carcerazione da parte delle autorità austriache. Antonio e Caterina ebbero infatti quattro figli: il già citato Silvio (la cui figura, assai interessante, degna di quella paterna, andrebbe approfondita dal punto di vista storico), quindi Paolina, Italia, Rosina.
Da studente ginnasiale, Antonio trovò nei classici latini – Cicerone e Orazio in primis – un appoggio ideale, un’ulteriore e costante fonte d’ispirazione per l’avversione alla tirannide e per l’amore verso le idealità democratiche. Conseguito il diploma di medico operatore presso l’Università di Padova – che, oltre ad essere frequentata dai figli delle buone famiglie friulane, era altresì uno dei principali centri di opposizione all’Austria –, nel 1832 iniziò a esercitare la professione a Navarons, nella Val Colvera e nella Val Tramontina, in condizioni assai disagiate ma lavorando sempre con scrupolo, abnegazione e generosità, al punto di essere chiamato “il padre dei poveri”. Nel frattempo seppe anche spargere tra la popolazione i principi politici democratici, dei quali la stessa Navarons, facendo perno su casa Andreuzzi, divenne un vivace centro d’irradiazione. Già assai attivo come patriota negli anni Venti e Trenta, il Nostro, convinto assertore del motto mazziniano pensiero e azione, elemento d’identificazione degli ideali repubblicani, partecipò tra il 1848 e il 1866 alle tre guerre d’indipendenza e, fra le altre cose, cospirò assieme a Mazzini nel 1853.
Dopo la seconda guerra, segnata dalla disillusione dell’armistizio di Villafranca del luglio 1859 (che lasciò il Veneto e il Friuli sotto gli austriaci, e perciò fu considerato dai democratici del Partito d’Azione una “seconda Campoformido”), l’idea di Mazzini e di altri patrioti avversi alle strategie di stampo moderato era quella di provocare, anche a dispetto dell’opposizione di Napoleone III, un’insurrezione in Veneto, nell’ambito di un disegno di ampio e modernissimo respiro che mirava alla costruzione di un’Europa unita, una federazione democratica e repubblicana di popoli liberi e autonomi. Mazzini stava divisando infatti una serie di azioni che, partendo da Venezia, con l’intervento di Garibaldi, avrebbe dovuto coinvolgere serbi, greci, romeni dei principati, ungheresi, e aiutare i polacchi già insorti; a sostegno di tutti costoro sarebbe poi dovuta intervenire una legione italiana guidata da Menotti Garibaldi. A testimonianza di una ritrovata unità d’intenti tra mazziniani e garibaldini, nonché del superamento dei contrasti all’interno del Partito d’azione, nel febbraio del 1864 Garibaldi scrisse all’Andreuzzi: “Conosco la vostra attività e il vostro patriottismo. Dite ai nostri amici del Friuli di perseverare; persuadeteli ch’essi potranno al momento opportuno e colla ardita iniziativa, decidere i destini d’Italia. Non saranno abbandonati. Si stringano intorno al Comitato Centrale Unitario e s’intendano con Benedetto Cairoli. Io sarò con loro”.
Dopo lunghi preparativi, costituzione di comitati (uno centrale, a Milano, di cui era presidente Benedetto Cairoli, e altri locali), contatti con altri gruppi rivoluzionari, preparazione delle armi e delle strategie, ordini e contrordini, il 16 ottobre 1864, al grido di “Viva l’Italia, fuori l’austriaco!”, ebbe il via in Friuli e in Cadore l’insurrezione capeggiata, su invito di Mazzini e di Garibaldi, proprio dall’Andreuzzi: presto abortita, essa era basata sull’organizzazione di bande armate operative dal Tirolo all’Isonzo, comprendendo tutta la catena delle Alpi, con l’intenzione di trascinare nel conflitto contro l’Austria i volontari garibaldini, il governo e l’esercito regio. L’iniziativa doveva partire dal Veneto, approfittando della rivolta polacca e dell’attacco austro-prussiano alla Danimarca per il possesso dei ducati di Schleswig e Holstein. Alla fine, i moti rappresentarono un ulteriore fallimento del Partito d’Azione, il che rafforzò l’ala moderata e filosabauda del patriottismo: l’annessione del Veneto e di parte del Friuli sarebbe stata conseguita due anni dopo, con la mediazione della Prussia e nonostante i disastri di Lissa e Custoza; due sonore sconfitte che ridimensionarono le aspirazioni del nuovo Stato nazionale e, soprattutto, lasciarono aperte le questioni collegate ai confini orientali.
Giorgio Madinelli ha ricostruito, sulla base della documentazione disponibile, il tragitto dei patrioti friulani nei seguenti lavori: I sentieri dei garibaldini. Escursioni sui monti tra Meduna e Cellina sulle orme degli insorti friulani del 1864 (2003) e In Carnia con Garibaldi. Escursioni in Sernio-Grauzaria sulle orme degli insorti friulani del 1864 (2007). La complessa e a tratti rocambolesca impresa può essere ricostruita grazie alla nutrita bibliografia, presente in buona parte nella voce sull’Andreuzzi curata da Tiziano Sguazzero nel terzo volume del Nuovo Liruti (in questa sede mi limito a segnalare alcuni riferimenti, fra i quali ritengo particolarmente utile il lavoro di Dino Barattin Mazzini a Navarons. I moti friulani del 1864, del 2004, seconda edizione ampliata con le Memorie di A. Andreuzzi e le Istruzioni per le bande nazionali). Se poi tale impresa sia stata avventatezza o lucido eroismo, è questione che è stata a lungo dibattuta, anche animatamente; comunque sia, benché i Moti non abbiano conseguito l’obiettivo primario, essi, segnati peraltro da tratti quasi leggendari (Un pugno di eroi contro un impero: così intitolò un suo celebre lavoro sull’argomento Gellio Cassi nel 1932) e tutt’altro che male organizzati, non furono in nessun modo un evento di mera appendice nel Risorgimento e servirono a far comprendere alla diplomazia europea che la questione veneta poteva e doveva essere affrontata con urgenza, piena consapevolezza e determinazione.
La portata europea dell’evento in oggetto è stata abbondantemente illustrata da storici illustri fra cui, in primo luogo, il romeno Stefan Delureanu, il cui intervento fu al centro di un importante convegno tenutosi fra San Daniele del Friuli e Meduno nel 2004 (bicentenario della nascita del patriota friulano) e intitolato per l’appunto I Moti Friulani del 1864: un episodio del Risorgimento europeo. Ma già nel 1968 lo storico austriaco Richard Blaas (Dalla rivolta friulana nell’autunno 1964 alla cessione del Veneto nel 1866) inserì il fenomeno nel contesto della crisi del dominio degli Asburgo in Europa, giacché l’azione acquistava una certa importanza una volta collocata nel coacervo di questioni riguardanti il problema – assai rilevante per la politica austriaca di quegli anni – della rinuncia alla posizione storica degli Asburgo in Italia da un lato, e del compimento e consolidamento dell’unificazione dell’Italia dall’altro. L’impresa dei patrioti friulani rappresentò inoltre uno degli “ultimi tremiti di quell’assalto rivoluzionario in grande stile contro l’Austria”, segnando nello stesso tempo “la fine dei movimenti rivoluzionari europei e delle sommosse democratiche”. Echi degli avvenimenti risuonarono sulla stampa estera (giornali inglesi, francesi e persino russi…).
È assai poco noto, inoltre, che la breve e drammatica impresa fu immortalata da Luigi Mercantini – autore di celebri componimenti quali l’Inno di Garibaldi e La spigolatrice di Sapri – nel poema in endecasillabi sciolti del 1865 Le rupi del Dodismala, dedicato proprio all’eroe di Navarons, con il quale il poeta marchigiano si era incontrato a Bologna, dove Antonio Andreuzzi giunse in seguito ad una romanzesca fuga e ad un intenso periodo di patimenti, braccato da orde di nemici.
“«Il soffrire per la patria è dolce». Specchiatevi in me… Viva l’Italia una ed indipendente!”, scrisse Andreuzzi alla famiglia l’8 novembre 1864, mentre lottava per la patria, di certo ricordando il celebre verso di Orazio “dulce et decorum est…”, e poi aggiunse: “Ringiovanito, alla testa di una banda di giovanotti, valico monti, supero precipizi, dormo sui sassi bagnato come gli altri, soffro fame e sete e sto benissimo. Che miracolo è questo? domandalo all’amor di patria, onnipossente affetto!”. Tuttavia, dopo essersi interamente speso per siffatti ideali, anche dopo la liberazione del Friuli (1866) egli, rientrato in patria al termine di due anni da esule e un processo subito assieme a numerosi altri patrioti a Venezia, non desiderò mai onori. Nella povertà e nell’oblio dei più, egli trascorse i suoi ultimi anni a San Daniele del Friuli, centro tradizionalmente massonico e patriottico, dove nel 1854 aveva accettato la condotta medica, esercitata con abnegazione e generosità (lo chiamarono addirittura “il padre dei poveri”) e dove promosse la Società operaia di mutuo soccorso. E proprio a San Daniele morì il 20 maggio 1874, non senza lasciare le sue intense memorie (riproposte in ultimo, nel 2008, dalla sezione friulana “Luciano Bolis” dell’Associazione Mazziniana Italiana, a cura di Carlo Porcella). Gli vennero tributati grandi e solenni funerali, ma a poco a poco la sua figura e le sue imprese furono dimenticate. Nel 1903, riportando all’attenzione di tutti il luttuoso evento, il maestro sandanielese Carlo Cosmi (autore in quello stesso anno del libretto Antonio Andreuzzi e i moti di guerra del 1864) disse: “Cessò di battere quel cuore che consacrò tutti i suoi affetti per la Patria e per tutti quelli che furono oppressi dalla sventure. Non ambì onori. L’intera soddisfazione di aver compiuto il suo dovere e di essere amato da tutti i buoni fu la sola ricompensa da lui desiderata”. Le spoglie degli Andreuzzi riposano a Navarons, dove fra l’altro è possibile visitare Casa Andreuzzi (Ecomuseo Lis Aganis), un’esposizione permanente di documenti e cimeli dei moti del 1864 che offre, tra le altre cose, testimonianze dei rapporti intercorsi tra gli Andreuzzi e alcuni insigni personaggi della storia risorgimentale italiana.
Nel 1950 il medico ebreo udinese Oscar Luzzatto – rampollo di una delle più patriottiche famiglie friulane e al quale, per inciso, lo scorso gennaio, nel 50º della morte, è stato dedicato un convegno a Udine – volle ravvivare il ricordo del collega nel suo Saggio di bibliografia medica friulana, onorando colui la cui “energia dell’azione fattiva tutta assorbì la Sua vita”, il cui “spirito di indomito assertore di verità” permaneva “in quella visione che gli fu costante compagna di vita: l’ideale, che per i grandi è il solo vero”. Siffatto ideale è chiaramente espresso nel testamento spirituale del medico-patriota di Navarons, scritto nella spelonca-rifugio di Cuerda il 22 novembre 1864, mentre dubitava di poter mai più riabbracciare i suoi cari; eccone qualche brano: “Italia, prediletta patria mia! La mia carriera sta per compiersi col 60º anno di mia vita… Di questi 60 anni, 42 li ho dedicati all’amor tuo con quanta devozione mi fu possibile ritrarre dalle mie scarse forze fisiche e morali ed economiche. Trascurai interessi di famiglia, tutto, per non mancare, per quanto poteva, alla tua emancipazione … Sì, l’austriaco potrà insultare il mio cadavere; la mia anima saprò sottrarla alle beffe dei suoi carnefici”. Sono frasi che fanno riflettere, soprattutto in questi tempi in cui la nostra “patria” (se non ci vergogniamo a chiamarla ancora cosi) ha profondamente bisogno di patriottismo: in forme diverse, certo, rispetto a quelle di centocinquant’anni fa, ma con uno spirito analogo, dalle “alte sfere” e sino all’“ultimo” cittadino. Come ha correttamente osservato il Barattin, infatti, non si può fare a meno di provare “rispetto per la figura di Antonio Andreuzzi, per il suo grande disinteresse, l’onestà e la passione civile”; e, sebbene “riproporre la sua storia così ingenuamente intrisa di coraggio e di romantico amor patrio” possa sembrare “una operazione retorica e fuori moda nei tempi attuali”, essa rappresenta nondimeno “una testimonianza storica di grande intensità umana e politica di quella cultura, che aveva inteso esprimere, come tutta l’opera di Mazzini, l’esigenza della creazione di una coscienza nazionale unitaria non imposta dall’alto, ma che dal popolo ricavasse la sua linfa vitale”.
Valerio Marchi