Guardare una persona mentre racconta permette di dedurre molto del suo carattere, della sua storia e della sua personalità; se poi costui è una fucina di idee, di esperienze e di tenacia, il lavoro di interpretazione e di ricerca, che risveglia un po’ la nostra indole da 007, vien da sé.
Appena lo incontri, Carlo Zoratti, regista udinese classe 1982, ti circonda con la sua personalità. La prima cosa che mi è balzata in mente non appena l’ho visto entrare dalla porta dell’ufficio in cui sarebbe avvenuto il nostro incontro è che, anche in un contesto estraneo, dimostra un’immensa presenza scenica e una personalità eclettica. Questa prima impressione mi viene confermata dal fatto che, appena gli si dà il «la», racconta – oh, se racconta –, gli piace molto, dice, raccontare. Carlo non si fa tirare le parole fuori dalla bocca, lui parla, parla molto di sé, del suo passato, dei suoi numerosi progetti e, cosa rara soprattutto per un uomo, parla delle sue emozioni e quando parla gesticola, imita, cambia la voce a seconda di cosa ti debba dire per coinvolgerti al massimo e per renderti più evidente e chiara l’idea. Questa innata e spontanea teatralità fa capire anche quanto il regista friulano gradisca la compagnia, come gli piaccia stare con le persone: e immediatamente Carlo snocciola l’aneddoto, tutto personale, di quando un suo ex collega, terminato di elencare tutte le mediocrità dell’amico, concluse tuttavia che se mai fosse esistito un «people department» lui ne sarebbe stato sicuramente a capo!
Dall’altro lato, però, Carlo Zoratti è anche un attento ascoltatore, interessato fin da piccolo alle storie, alle diverse idee e alle novità: è intrigante osservarlo mentre, proteso col busto in avanti, ascolta un racconto del passato della nostra terra e nel frattempo il sofisticato meccanismo delle sue meningi lavora, immagazzina e si prepara a effettuare chissà quali collegamenti.
Ma facciamo un passo indietro. Carlo Zoratti è il regista, co-autore e co-protagonista del docufilm «The Special Need» presentato nel 2013 al Festival del Film di Locarno dove ha ricevuto un travolgente consenso di pubblico. La pellicola racconta in maniera sincera e dolce la storia di un ragazzo autistico che, aiutato da due amici, ricerca l’amore, quello con la «A» maiuscola, con tutti gli annessi e i connessi del caso, non per ultimo la sessualità.
Disabilità e amore o, meglio, disabilità e sessualità: tema difficile, oserei dire quasi tabù, ma che, oltre alla standing ovation alla prima a Locarno, ha incontrato i pareri favorevoli sia della critica che del pubblico, ha partecipato a rassegne prestigiose come l’International Documentary Film Festival di Amsterdam e il Copenhagen International Documentary Film Festival e si è aggiudicato diversi premi importanti come il South by Southwest Film Festival in Texas, il Trieste Film Festival e il Golden Dove a Dok Leipzig.
Ma Carlo Zoratti non è approdato subito alla carriera di regista: artista nell’animo lo è sempre stato, ma scegliere e trovare il proprio posto all’interno di questo immenso mondo non è stato, poi, così immediato.
La sua passione per l’arte inizia da piccolo con la batteria, arte «rumorosa e inutile» che viene quindi necessariamente ostacolata dal padre; finito il liceo, si sposta a Torino per conseguire in 2 anni e mezzo la laurea in Progettazione multimediale grazie alla quale approda a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione della Benetton dove, per alcuni anni, può confrontarsi con alcune tra i migliori cervelli della visual graphic e ha la libertà di sperimentare le varie tecniche espressive. È proprio grazie ad un esperimento, che vede ricostruire il film «Vacanze di Natale» di Carlo Vanzina del 1983 in un videoclip di appena tre minuti girato a Ravascletto, che nel 2008 il cantante-rapper Jovanotti lo vuole nello staff del suo tour in qualità di VJ interattivo. Per i profani Carlo, con un gioco di luci e di ritagli di carta, creava sul momento delle esperienze visive che venivano proiettate sui megaschermi del palco durante tutta la durata del concerto. Tutto questo in appena 26 anni di vita: soddisfatto? Macchè, Carlo non aveva ancora trovato il suo posto e per questo si prende una «pausa» di un anno e mezzo in cui studia alacremente da autodidatta e si interessa profondamente ai più svariati ambiti e tecniche fino ad arrivare, grazie ad una sorta di disvelamento, al progetto che porterà a «The Special Need».
Come è nato «The Special Need»?
Enea (il ragazzo autistico co-protagonista del film, ndr) era stato un mio compagno d’infanzia. L’ho incontrato nuovamente e per caso alla fermata dell’autobus in viale Trieste a Udine dopo un po’ di anni che non lo vedevo: la prima cosa che ho notato è stata la leggera barba sul suo viso, che mi ha colpito molto perché, in modo del tutto arbitrario e superficiale, lo avevo relegato al ruolo di eterno bambino a causa della sua condizione di disabilità. Solo in quel momento ho pensato che, al pari di tutti, Enea era cresciuto e dunque aveva i suoi bisogni e le sue necessità, anche fisiche. La domanda è nata spontanea: «Enea, hai la ragazza?» e l’unica soluzione logica alla sua risposta negativa è stata quella di cercargli, assieme ad un altro amico, Alex, una morosa.
Per quanto tempo hai lavorato a questo progetto?
Abbiamo impiegato 4 anni e mezzo per portare a termine il progetto, ma ne è valsa la pena. Lo standard che mi prefiggevo e i critici che più temevo erano gli amici di mio zio, assidui frequentatori del bar di Mereto di Tomba, il paese in cui sono nato e cresciuto: volevo creare qualcosa che li avrebbe incuriositi e interessati e sapevo che loro costituivano il pubblico più esigente e più arduo da conquistare.
Nella realizzazione del documentario ci sono stati momenti più emozionanti degli altri?
Indelebile nella mia memoria è stato il momento in cui abbiamo registrato la parte dove Enea ha l’incontro sessuale con la donna: devo confessare che, se tutto il resto della pellicola era in presa diretta, quella invece era l’unica scena che avevo pensato e programmato, avevo già in mente anche la colonna sonora di quell’attimo: l’«Ave o Vergine ûs saludi», il canto sacro alla Madonna. Il testo ha connotazioni molto fisiche, chiedere alla Madonna di toccare, di prendere e di baciare il Bambin Gesù… insomma io non lo avrei mai fatto! In più era la canzone preferita di entrambe le mie nonne, per cui era molto importante per me. Ma proprio in quel frangente accade invece di tutto: il tecnico audio sbaglia le prese, il cameraman sbaglia le angolazioni, insomma sembra che ognuno ci metta del suo perché la scena non riesca come dovrebbe. Un momento denso di pathos rovinato completamente da una serie incredibile di errori. Non ci ho visto più, ho sfogato la mia rabbia e ho fatto una lavata di capo a tutti. A quel punto, al colmo del furore e dando ormai il set per spacciato, ho deciso di rivedere subito la ripresa, acconsentendo alla presenza del sottofondo musicale. Immagina la scena: tutta la troupe, praticamente di soli uomini, ammassata davanti ad un unico monitor in un sottoscala… e, beh… appena ho visto la registrazione con la canzone in sottofondo, nonostante tutti gli errori, mi è stato subito chiaro che quell’insieme immagini-musica funzionava bene così, semplicemente bene, talmente bene che ho iniziato a piangere come un bambino, ho sfogato tutto, anche cose recondite, sepolte da chissà quanto tempo nel mio animo.
Che voto dai a «The Special Need», considerato che è la tua prima esperienza da regista?
Non posso sinceramente dare una cifra unica, ma preferisco due voti distinti: un bel 10 per il progetto in sé, per la grande soddisfazione che mi ha dato e per la capacità di averlo concluso, nonostante le vicissitudini che hanno accompagnato la sua realizzazione. A me invece darei un 5/6, perché era la mia prima esperienza come regista per cui, girando, scrivendo, stando sul campo insomma, ho imparato molto e scoperto aspetti a me nuovi: un voto basso perché voglio garantirmi un ampio margine di miglioramento.
Cosa viene dopo «The Special Need»?
Dopo il documentario sono andato in Olanda dove ho lavorato per una delle maggiori agenzie pubblicitarie del mondo, la Wieden+Kennedy Amsterdam, ma poi, assieme alla mia ragazza, abbiamo deciso di tornare a Udine. In Italia continuo attualmente a seguire Jovanotti nei suoi tour e contemporaneamente insegno comunicazione allo IUAV a Venezia, in qualità di professore associato, dove cerco di spronare i ragazzi ad esprimere i propri valori, le proprie ambizioni e le speranze per il futuro. A questo proposito, dopo l’esame, organizzo una specie di competizione in stile X-Factor con vari giudici esterni a cui i ragazzi devono esporre in due minuti il proprio progetto: chi conquista il podio ha un voto in più all’esame e il primo classificato riceve anche un premio di fondamentale importanza sociale, cioè un salame! Il mio motto, citando il grande Gene Wilder, è «SI PUÒ FARE»: è inutile lamentarsi e basta, una volta che decidi cosa vuoi, rimboccati le maniche e sii fautore del tuo destino. Quando sei in ballo, devi ballare.
Quali sono i prossimi progetti? Possiamo avere una piccola anteprima?
Attualmente sto lavorando alla realizzazione di una fiction intitolata «La vita nuova» che ha come tema principale la spiritualità: un movimento new age di San Giovanni al Natisone con protagonisti un guru insicuro, un’infermiera che cerca l’amore e un paziente in dialisi con una forte razionalità che si aggiungerà al gruppo solo grazie alle insistenze dell’infermiera. Il dramma si compie quando a San Giovanni arriva il sommo predicatore del gruppo new age che, però, ha una visione completamente opposta a quella che finora aveva millantato il guru; questo innescherà reazioni veramente imprevedibili…
Sempre temi molto particolari e scottanti: la disabilità, la spiritualità…
Tratto temi che sono presenti nella mia vita. La spiritualità, in particolar modo, è molto vicina alla mia esperienza: provengo da una famiglia cattolica, sono nato e cresciuto con la spiritualità del cristianesimo e, pur essendo l’unico della mia famiglia a non essere cresimato, il tema mi pervade completamente perché fa parte di me, del mio vissuto, della mia storia e delle tradizioni del mio paese.
E infine una domanda che può sembrare banale: qual è il tuo regista preferito?
Ce ne sono molti: fra gli italiani sicuramente posso nominare Ettore Scola, mentre degli stranieri mi piace molto Paul Thomas Anderson, in particolar modo mi piace molto come tratta il tema della spiritualità e della redenzione: nei suoi film, tutti di tipologia «in balance», arriva sempre il momento in cui coloro che si sono comportati male vengono puniti o, viceversa, chi si è comportato in maniera corretta viene premiato.
intervista di VALENTINA GONANO