Il significato particolare di questa silloge non è quello di un ritorno di Antonella Sbuelz alla poesia, ma piuttosto di una sintesi del suo percorso di scrittura: Transitoria viene a racchiudere elementi presenti anche nella narrativa e costituenti la sua matrice culturale, etica e ideale. Sul titolo del libro (interpretabile su molteplici piani) torneremo nel corso dell’analisi del testo.
Le cinque sezioni di cui si compone possono ad un primo approccio sembrare separate e discontinue, anche in forza di una loro diversità dal punto di vista formale. In realtà c’è tra di esse uno stretto legame, che scopriamo addentrandoci nei testi poetici, cogliendo in essi i nessi di continuità, i richiami verbali, la consequenzialità che le stringe insieme in una sorta di intertestualità orizzontale conferendo loro - attraverso sapienti rimandi - una unitarietà compiuta di motivi e tematiche.
C’è anche una intertestualità verticale che scaturisce dalle citazioni, che non sono qui solo belle etichette da applicare sulle rispettive sezioni, ma esprimono concetti e valori che si saldano strettamente con i testi di Antonella Sbuelz. Inoltre assume grande importanza la dedica di questo libro, spostata a sinistra. un po’ in penombra, alle due figure fondamentali (madre e figlia) che rappresentano fisicamente la sua genealogia femminile, e che sono in un certo senso la chiave di segreta lettura di questa opera: un prima che non c’è più (la nascita, l’infanzia, la formazione), legato alla madre, e un dopo che non c’è ancora (la dimensione di un futuro non ancora noto, verso il quale Antonella Sbuelz nutre speranze e rivolge i suoi ideali, ma anche accumula domande, angosce, timori), proiettato sulla figlia. Tra queste due polarità è un incessante transitare (e qui propongo uno dei possibili significati del titolo): un transitare che è un percorrere le trame del tempo per ricostruire le figure di memoria, quelle figure cioè che - scavando con la caparbietà dei ricordi e al tempo stesso con la leggerezza del sogno, dell’immaginazione - rendono via via palpabile e presente la materia misteriosa del nostro tempo coagulato. Ecco dunque il legame con la citazione di Anne Michaels «la nostra memoria contiene più di quello che ricordiamo», che distingue la memoria dal ricordo.
La memoria è qualcosa che va oltre il ricordo, che lo contiene e lo comprende. Il ricordo è qualcosa che affiora alla coscienza, in modo automatico, è un frammento di memoria; la memoria invece è un atto di volontà, è una scelta dettata da un imperativo etico, in quanto vuole sottrarre all’oblio le esistenze, i valori, i significati. E per Antonella Sbuelz la memoria non è celebrazione, commemorazione, ma un atto di partecipazione a quei destini, e un rendere presenti e vive quelle presenze, dare un preciso senso alla direzione di quelle esistenze, verso cui sente la responsabilità e il dovere di tramandarle.
Tutta la sua poesia è un recupero, una tessitura di ricordi che vengono riportati al presente, fatti vivere, resi universali e comunicabili nell’assunzione di una responsabilità precisa verso il passato (memoria) ma anche verso il futuro (tramandare, consegnare): atto questo che non può avvenire se non attraverso una narrazione che diventa scrittura. Ecco allora la citazione di Paul Auster che riconosce come solo con la scrittura si possa arrivare ad attualizzare la memoria… E non a caso tale citazione - la prima, in esordio - si lega all’ultima, quella di Svevo che, con un passaggio in più, riconosce proprio alla scrittura la sola possibilità di salvezza. Salvezza dall’oblio, dal non essere più, dallo scomparire in una vita senza senso, perché il vivere non sia vigliaccheria (Esilio, p.101): solo la memoria ci salva da questo.
E voglio ricordare che questo imperativo, questo dovere è lo stesso che Antonella Sbuelz si assume e rispetta nei suoi romanzi, nei quali oltre a questo rigore ideale c’è una scrupolosa e profonda analisi storica, documentazione meticolosa, ambientazioni particolareggiate ed appropriate che danno luogo a narrazioni intense e coinvolgenti: questo a conferma della continuità tra poesia e prosa affermata in esordio.
Nella forma poetica, il discorso assume un tono più intimo, privato, e l’espressione è necessariamente più intensa, immediata, più forte ed evocatrice. Ma Antonella Sbuelz manifesta qui anche una forma di controllo della materia poetica che consiste nel non lasciarsi sopraffare dai sentimenti, dalle emozioni a volte fortissime che la scrittura riporta in superficie. C’è qui una attenta disciplina delle forme (non mi soffermo su aspetti troppo specifici, ritmo del verso, rime, assonanze, metri, musicalità…) affinché l’intero aspetto emozionale non sia l’unica ragione della poesia ma invece occasione per creare una dimensione parallela – e comunicabile, fruibile da altri – di quelle emozioni, pulsioni, ideali vissuti così intensamente e radicalmente, per sancirne l’esistenza, per ridare loro dignità e vita, per farli rientrare nella storia attraverso il momento creativo della poesia (il più alto poiein, fare).
Si veda come si strutturano le Figure di memoria della prima sezione: ritratti intensi, che portano in primo piano emozioni forti, valori che sono diventati portanti nella vita stessa dell’autrice, sentimenti e personaggi di cui si nutre quella vita che da essi si è tramandata in un continuum di esperienze e che hanno dato forma alla genealogia del presente. E pur trattandosi di una produzione più intima e legata agli affetti privati, ci sono in essa dei rimandi di carattere generale, universale, per cui queste figure possono essere percepite come esemplari, come tipi e modelli di quella umanità silenziosa e dolente, di quella gente semplice e umile, e spesso dimenticata dai fasti della vita, alla quale Antonella Sbuelz è sempre rivolta con attenzione sensibile e con pietas autentica: non a caso accanto a queste figure familiari appaiono, in alcune strofe della sezione Sguardi, quegli ultimi di oggi che richiamano quegli ultimi che siamo stati noi nella voce di padre Davide Turoldo: i migranti (p. 83) che muoiono per raggiungere il nostro paese, i disperati (pag.85). [Ed ecco ancora l’intertestualità orizzontale e l’unitarietà di questa raccolta]
Le dediche a Elena, Bruno, Annamaria, Giovanni, Ada, Antonio, Rosa Maria, Renato, Rita, Carlo V, il suicida ci avvicinano a persone ben precise, identificate e individuate fino a riconoscerne la vicinanza familiare, ma che nello stesso tempo leggiamo come figure paradigmatiche: nelle storie ritroviamo storie uguali a quelle di altre persone, nel loro dolore, nella loro incompiutezza, nella loro sconfitta ritroviamo il nostro dolore, le nostre incompiutezze, le nostre sconfitte, perché la poesia di Antonella Sbuelz non è mai ripiegamento e chiusura sui propri sentimenti, ma apertura, condivisione piena nel suo offrirci dei tipi umani, dei modelli in cui ci è possibile riconoscerci ritrovando parti della nostra stessa esistenza. In questo senso sono figure universali. Cito almeno la poesia (Figure, p. 34 s.) in cui il disperso in Russia chiede alla donna che lo accoglie e lo assiste: Perché mi curi? Ho invaso il tuo paese e lei risponde Anch’io, da tanto tempo, ho un figlio in guerra, / Spero in un’altra madre che lo curi - icona della madre universale: è icona, quella contadina, della madre universale.
Ma non: ci sono solo le figure di persone, in questa sezione iniziale: la prima poesia, dedicata a Elena e a Lionello Fioretti, è molto importante per due motivi: nel raccordo a L’Arlechin Meneghel di Fioretti c’è una dichiarazione di poetica, ma anche l’assunzione di una figura emblematica come la sua Colombina, la ragazza venuta dal Friuli a servizio a in una Venezia marcescente di vizi e inutili orpelli, e umiliata e violata: una figura femminile, figura di dolore e di nostalgia, apre la raccolta, che si chiude nel nome delle tante figure femminili silenziose e assenti «che scrissero poesia senza firmarle» (le Anonime evocate in esergo, nella citazione di Virginia Woolf). C’è una vicinanza di sentimenti, una ideale identificazione di Antonella Sbuelz con Lionello: si veda il richiamo alla nonna partita per le risaie del Piemonte, allo stesso destino di lontananza e nostalgia che viene riscattato dall’empatia della memoria, dall’accompagnamento in quell’andare che porta al riscatto. È un viaggio che parte dal dolore (non un viaggio di dolore) per approdare ad altra sponda: ed ecco quell’andiamo allora con cui si apre la lirica-figura successiva (p.17) e che ritroviamo anche in Allora andiamo (p. 24), quasi una incitazione che racchiude forza e coraggio, un mantra salvifico che vuole procedere - transitare: ecco ancora il senso del titolo - dall’oscurità a una luce nuova, dal magma tenebroso della sofferenza e dell’oblio a un riscatto attraverso la parola poetica, a quella vita resa in nudo di parole che conclude la raccolta (p.103). E ancora: la comunanza con Lionello è qui non solo di poetica ma di etica: nell’assumere il dolore altrui, nell’accompagnare con la memoria i destini di altri e riscattarne il destino, la sorte di dolore e di resa. E in questo riscatto possiamo intravvedere anche una possibilità di assoluzione, per richiamarci a un verso citato da Rondoni nella prefazione (p. 5). Se il tempo non può essere assolto, sicuramente è la poesia che assolve questi destini nella felicità della memoria, in un atto che, al di sopra e al di fuori di qualsiasi giustizia umana, è in grado di ricollocare nella esatta posizione di senso le ingiustizie della storia, proprio attraverso l’atto salvifico della pratica rigorosa del ricordo. In questo senso la poesia di apertura è svelamento della poetica di Antonella Sbuelz, in quanto dichiara il senso e l’impegno di ciò che rappresenta per l’autrice la poesia, questo andare, questo movimento, questo transitare, parole chiave della raccolta, espressioni il cui ripetersi ci dice quanto sia intensa la sua volontà di indagare, di scoprire di raccontare, quanto premono questi motivi, quanto siano essenziali, fondamentali per la sua poesia: un prendere per mano queste figure in una sorta di accompagnamento affettuoso, di assunzione dei loro destini e al tempo stesso di comunione con esse. C’è qui un senso di generazione verso coloro nei cui confronti di esprime la sua affettuosa attenzione, come in Figura n. 8 (pag. 31): oggi ricordo e figlio i tuoi pensieri, oppure nelle due poesie dedicate a Rita (p. 32 e p. 98), ove la parola chiave comunione (che si ripete in entrambe) diventa una di quelle parole chiave che racchiudono il senso di tutta una poetica, che ritroviamo uguale anche nella narrativa. Per non parlare del volo e delle ali che sono la metafora centrale e il motivo ricorrente in Antonella Sbuelz, in cui di esprime quell’ideale di aspirazioni alte, di distacco dalla banalità dell’inutile, di riscatto storico dal silenzio, di impegno ed affetto verso mondi dimenticati: aspetti questi che ritroviamo intatti anche nei suoi romanzi.
La sezione successiva, Amori, non poteva che essere posta qui, a contatto con quelle figure che con i loro sentimenti hanno alimentato la formazione dell’autrice, le sue scelte, i suoi valori e i suoi ideali. Se nel riportare alla memoria le sue figure Antonella Sbuelz fa un atto d’amore assoluto, espresso attraverso la pietas sacrale verso le individualità di cui ricostruisce i volti, anche i suoi amori (non in senso astratto, ma i singoli individui che appaiono come oggetti d’amore) potrebbero essere delle figure di memoria – ma riportate a un tempo che sta tutto dentro la vita dell’autrice – in quanto incarnano un momento, un fatto, un evento d’amore e ne rappresentano la fissazione in un preciso istante sulla linea del tempo: Allora ho capito / d’un tratto / chi saresti diventato (Prologo, p. 49); Era di maggio. Noi trent’anni in due (Chiaro d’acqua, p. 56); Lo sguardo con cui lui ti avvolgeva / ritorna in onda lunga fino a me (Sessanta, p. 58), e a chiusura della sezione troviamo l’espressione corpi di memoria (Figlia, p. 60). Sono i volti che le appartengono, sono i volti delle persone amate attraverso i quali noi esistiamo. Ci risulta più chiaro il senso delle due dediche: quella di Emily Dickinson, Che l’amore è tutto, tutto ciò che sappiamo dell’amore e quella struggente di Wisława Szymborska Ascolta / come mi batte forte il tuo cuore.
Nella sezione che segue, Tempo, e che, oltre a rivestire una importanza centrale rispetto a tutta l’opera, rappresenta anche l’elemento complementare, integrante, della stessa memoria, troviamo le due poesie che danno titolo all’intera raccolta: Transitoria 1 e Transitoria 2, e le due citazioni con cui si apre esprimono, in continuità con le precedenti, sia il senso di quel tempo rappreso (Marisa Madieri) in cui possiamo riconoscerci ed esistere sia il significato ultimo del tempo come tempo degli individui, dei corpi concreti che lo portano e lo provano (Sylvie Germain), così come avviene con le figure e gli amori. Qui troviamo il senso più profondo – ed anche drammatico – del transitare, del passaggio da un tempo circolare che si ripete (passato-futuro e poi ancora passato-futuro) ad un tempo lineare che comincia e inesorabilmente finisce. C’è il senso di un tempo che non ritorna, di un inizio e di una fine, e dunque il senso della morte. Qui le parole ricorrenti sono nero, duro, nudo, niente, sordo, fatica, frantumata, muore, buio, paura, assenze, attese, dolori, inciampo, vuoto e transitorietà, ed espressioni come memento mori (p. 70), la vita si assenta (p. 71), un patto mai stretto col tempo (p. 73), non fa rumore il tempo quando muore (p. 72); ma precipizi e voli si accompagnano alle resistenze (p.73), e appare anche la speranza, il riscatto, ed ecco ripreso il motivo della Colombina iniziale.
Nella sezione seguente, Sguardi, c’è una volontà di superare, pur nella consapevolezza della morte e del dolore (lo confermano le due citazioni di Claudio Magris, Alla fine resta solo questo, lo sguardo indietro che si accorge del niente e di Pierluigi Cappello …bendaci quanto basta per vedere) i limiti che il tempo della vita ci pone di fronte, proprio nel momento in cui l’Autrice tenta di riscattare la memoria e di riportarla all’attualità del presente e ad una universalità di valori. La durezza della citazione di Magris sembra stemperarsi in una forma quasi mimetica di gioco verbale, abilmente condotto attraverso l’uso delle quartine, in rime alterne, accompagnate spesso da scarti spiazzanti, da contrapposizioni forti che esprimono efficacemente le contraddizioni della vita, la messa in scacco che la sorte spesso ci riserva, o i destini drammatici degli ultimi del mondo. Ma qui c’è anche una sorta di divertimento, di grazia, di leggerezza che traspare dal particolare registro che Antonella Sbuelz ha voluto conferire a questa sezione: le quartine spesso contengono richiami letterari, citazioni, ironia e autoironia, parafrasi, figure agili e schioppettanti, quasi ad irridere la cupezza di un valore evocato. Alcune sono tra l’epigramma, l’aforisma e la sentenza gnomica. C’è anche qui continuità tematica, ma una differenziazione delle forme che – per la tipologia scelta - impongono di esprimere in modo quanto mai chiaro e il più possibile sintetico il pensiero dell’autrice. Andrebbero lette e commentate una ad una, tanto sono ricche – pur nella essenzialità del linguaggio – di significati profondi e di un’espressività quasi pittorica. Molto bella ed esemplificativa dell’approccio scelto è quella che, da una esperienza infantile, approda ad una riflessione sulla vita: Ricordo: mi strapparono due denti / per fare spazio ai prossimi venturi // così la vita, e forse te ne penti: / lasciare il vuoto a pieni mai sicuri (p. 80), oppure quelle finali che esprimono tutte il difficile compito del vivere in una società vacua: in questo sperperio fra niente e niente (p. 84) o piena di contrasti e preclusa all’accoglienza di altri popoli e culture: lasciando decretare dai ben-nati / quote di fame e di povertà (p. 84). La più interessante forse, anche perché segna in un certo senso il passaggio alla sezione seguente (dedicata al verbo, alla parola), è quella dell’invocazione alla rima (Ahi rima rima, ritmo del mio cuore, p. 81) che qui simboleggia il verso, il metro, la poesia e richiama il grido di Dante che all’avvio del Purgatorio dichiara la dedizione totale, se non un vero e proprio destini di assoggettamento, alla parola, al dire che viene considerato da Antonella Sbuelz come l’unica possibilità per esistere e per resistere dentro la realtà quotidiana, spesso così dura da affrontare.
L’ultima sezione, intitolata Verbo e dedicata alle Anonime della scrittura, richiama immediatamente, sin dalla citazione di Virginia Woolf, il tema del rapporto tra la donna e la scrittura, rapporto complesso e affascinante, cui Antonella Sbuelz si sente fortemente legata non solo in prima persona, ma per averlo indagato e sperimentato nell’analisi di molti testi femminili. In queste poesie conclusive si respira una forte fedeltà alla premessa dichiarata, in quanto in esse aleggia una presenza femminile silenziosa, sullo sfondo, a evocare quella che spesso si cela dietro tante scritture – anonime o diversamente attribuite: sono personagge silenziose, quelle di Antonella Sbuelz, che abitano i suoi versi, ma senza occuparne il primo piano. Come in Alba (p. 91) ove, richiamando quella che è l’alba della vita, l’epoca in cui nasce la prima parola, evoca quella stagione dell’infanzia in cui la presenza materna è fondamentale, a registrare e riconoscere l’avventura di quella lingua che per tutti noi è proprio la lingua madre, cominciata con la prima modulazione della voce, spesso aiutata dalla parola materna che stimola e guida le prime emissioni vocali. Inizia da qui quel cammino che pian piano ci condurrà al riconoscimento della parola come unica salvezza possibile (Svevo: Fuori della penna non c’è salvezza, p. 89) chiudendo il cerchio e concludendo l’avvio di apertura: motivo di continuità e di unitarietà di quest’opera. Nella seconda lirica, Verbo, viene intensamente rappresentato l’atto della scrittura femminile, il rapporto ora conflittuale ora amoroso con la parola, sola e ultima risorsa che resta quando tutto rischia di cancellarsi. Questi versi incalzanti esprimono bene l’ansia e la tensione che è tutta interna alla problematica della scrittura femminile, così sottilmente indagata dalla Woolf, e che nella lirica successiva ripropone il tema della parola, questa volta come presenza misteriosa e sognata, che entra nei fantasmi della notte: mi assediano di notte le parole (Parole, p. 94) e che scatena un abbandono totale al flusso verbale. Dall’assalto delle parole attraverso il sogno e il mistero notturno si transita a quella che è l’alba collettiva del genere umano in Soffio (p. 96), il soffio divino creatore della parola e del linguaggio, dove la parola – assunta come garante di memoria, di tempo disteso – viene rimpianta nella sua purezza edenica e perduta: di quel verbo capace di superare le contraddizioni degli opposti ora resta solo la nostalgia, il ricordo e il rimpianto di un’utopia. In questa sezione si parla di verbo in diversi gradi, dal suo apparire come voce nella prima esperienza infantile alle Voci (p. 99) che l’autrice avverte intorno a sé e che richiamano quella pluralità di individui e storie che ha fatto rivivere con la parola: le sue voci sono quelle delle figure di memoria, degli amori, degli sguardi, del tempo. Sono (torna la presenza emblematica di Rita, descritta qui nell’atto dell’indicibile) quelle parole rimaste in punta di matita (p. 98) che forse esprimono lo stesso indicibile, la stessa incertezza, la stessa inadeguatezza, lo stesso dubbio che abbiamo di fronte al peso delle parole, come viene espresso nella poesia Esilio (p. 100) dove domina l’interrogarsi sulla legittimità del dire, sulla sua necessità, dove si afferma quella resistenza del dire che rappresenta la sola possibilità, alla fine, che il vivere non sia vigliaccheria.
Infine la poesia In nudo di parole (p.102), che conclude la raccolta, è anch’essa una dichiarazione di poetica, raccordandosi a quella d’apertura, ed esprime la funzione più alta della poesia, una poesia resistenziale e assoluta, cui è affidato il dovere del dire le cose, del sostenerle, del battersi per loro anche mentre si sfanno o sprofondano nell’orrido dell’ieri. Ancora il senso del transitare, del disfarsi, del morire e insieme della propria insicurezza (incerte sillabe di volo, p. 66; stente sillabe di volo, p. 97), della propria insoddisfazione: non solo ideale, per il volo che sembra impossibile, ma proprio esistenziale, in quanto paura, timore verso la vita. Ancora un legame forte con le tematiche apparse in Tempo e che offrono un’ulteriore ragione della poesia: quella di opporla non solo all’oblio della dimenticanza, ma al finire della morte, all’incerto del vuoto, per farsi scudo al nero. Di fronte al quale la parola che rimane è solo quella essenziale, spogliata di ogni connotazione superflua, utilitaristica, ornamentale: è la parola necessaria, la sola di salvezza, è la parola poetica, quella che Antonella Sbuelz ci ha donato con questa raccolta esemplare.
Maria Carminati